Che film è «Queer», come lo racconteresti?
È un film sull’angoscia della relazione con l’altro, sul terrore di ciò che può essere. Ed è una storia d’amore in cui in fondo l’aspetto del sesso è molto poco centrale rispetto a un sentimento che esorbita, che chiede a chi lo vive di mettersi in gioco. Lee all’inizio è talmente abituato alla sua solitudine da non poter pensare di essersi innamorato. Crede che quel ragazzo sarà uno dei tanti incontri occasionali della sua vita da americano in fuga in Messico. Pian piano scatta qualcosa, vorrebbe dare a questo sentimento che avverte anche nell’altro una possibilità, però Allerton è terrorizzato, ha paura di sperimentare una libertà sconosciuta, di abbandonarsi senza controllo. Preferisce mostrarsi al mondo in modo conforme alle regole e così deve essere. La sua figura esprime le forme di repressione dell’identità maschile, la sciamana lo spiega bene a entrambi che la droga non cambierà il loro destino. La repressione è così potente che il ragazzo non riuscirà mai a andare oltre. Allerton è posseduto dal centipede che nella cosmogonia di Burroughs è il simbolo di questa repressione, un nemico che ci colpisce senza tregua.
Daniel Craig è magnifico, il suo modo di diventare Lee coinvolge ogni nervo, il suo corpo è una cartografia di emozioni.
Daniel è interno al film, sin dalla prima volta si è dato visceralmente, in maniera totale; è stato un partner molto generoso. Queer contiene diversi altri film e lui ha saputo trovare le direzioni giuste per non perdersi, ci siamo confrontati fra noi come due filmmaker. Ho pensato a lui perché è un grande attore e mi sembrava la persona adatta a tradurre sullo schermo l’amore profondo di un uomo senza banalità.
La scrittura di Burroughs sembra intraducibile sullo schermo. Quale è stato il tuo punto di partenza?
L’idea di «adattarla» al mio linguaggio che è quello delle immagini, al tempo e allo spazio del cinema. Insieme a Justin Kuritzkes (che firma la sceneggiatura, ndr) ci siamo mossi fra quelle pagine come dei detective: per me quella storia raccontava un amore frustrato, non eravamo in una fantasia erotica o amorosa di una persona ma dentro a una fragile esposizione del sé. Quell’amore esisteva, era reale. A quel punto abbiamo provato a scoprire cosa ne era stato di quel vero amore, dove era finito; ne cercavamo la presenza nei frammenti, anche i più piccoli, e persino insignificanti sparpagliati nel movimento dei personaggi, Ci siamo confrontati con Oliver Harris che è un grande studioso di Burroughs, lui ci ha incoraggiati ad andare in questa direzione che afferma un romanticismo estremo. Ma Burroughs era un romantico nonostante la parola del romanzo, di una scrittura con cui tende a celare questo aspetto.
E la difficoltà maggiore, i dubbi, i timori di sbagliare? Specie visto che avevi inseguito questo progetto tanto tempo.
È strano perché pure se Queer è appartenuto a lungo alla categoria dei «film impossibili» è stato forse uno dei più semplici che ho realizzato negli ultimi anni. L’ho inseguito per decenni, è vero, era una delle mie ossessioni, desideravo girare un film da quel libro di cui non riuscivo a avere i diritti appena l’ho letto che ero un ragazzino. Poi finalmente quando li abbiamo ottenuti ogni aspetto della lavorazione è andato avanti senza difficoltà né problemi. Ti faccio un esempio: lo scenografo che per come avevo in mente l’impianto visivo di Queer era fondamentale. La scenografia è molto interna emotivamente al punto di vista, non volevo banalmente un «film in costume», quel luogo, quella Città del Messico, e anche la giungla dovevano essere la proiezione fantasmatica dei personaggi, di ciò che inseguono, sono uno spazio mentale. Un po’ come accade nel cinema di Powell e Pressburger che è stato continuamente nei miei pensieri mentre lavoravo a Queer. A un certo punto ho pensato a Stefano Baisi, è stata un’intuizione improvvisa, lavoriamo insieme nei nostri progetti di design da tempo, gli avevo detto di leggere Queer, il romanzo perché pensavo che potesse piacergli. Ho sempre molte difficoltà con gli scenografi, le loro proposte rimandano quasi sempre a un’idea pre-esistente, e qui, dove appunto la costruzione degli spazi era un passaggio centrale questo approccio poteva diventare un problema insormontabile. Cercavo uno sguardo libero dai pregiudizi su quel mondo. Parlandone con Stefano ho sentito che era la persona giusta. Fra noi c’è stata un’intesa unica nel modo di vedere e di proiettare nelle immagini l’universo del romanzo, di progettare questo spazio libero, cristallino in cui viveva il contrappunto fra gli spazi e i corpi che non esistono se non all’interno di un amore radicale negato.
Nel lavoro con gli attori sei sempre molto preciso, ne cogli e esalti potenzialità spesso fino allora rimaste inespresse. Qui ancora più che altrove i corpi sono un terreno di battaglia dei desideri e dei sentimenti.
Mi piace pensare che nel mio cinema ci siano dei corpi, e che questi corpi abbiano la dignità e l’intelligenza e l’onestà di esistere nel rapporto tra loro e gli altri corpi. È difficile perché poi quando c’è di mezzo la rappresentazione, la coreografia di quei corpi, anche la relazione sessuale diventa un passaggio inevitabile. Anche se io ho sempre in mente corpi che esistono in modo complesso.